cinque ragazzi. cinque ragazzi per cinque argomenti: letteratura, arte, musica, cultura e non solo... cinque argomenti in "cinque righe": il pentagramma, un progetto che si propone di accendere la curiosità del suo lettore suggerendo semplici spunti di interesse generale. Discorsi intrecciati l'un l'altro come note musicali che cercano l'armonia uniti dalla stessa "chiave".

giovedì 28 febbraio 2013

Granville: la "Belle Époque" dell' Indie rock francese

Ma in fondo, quanto ne sappiamo della musica Indie francese? Che rapporto hanno i nostri compari transalpini con la chitarra elettrica? 

Se la vostra conoscenza di band francofone si limita ai Noir Désir - per i quali dovete ringraziare MTV, che in un momento di lucidità decise di trasmettere il video di "Le vent nous portera", se no per voi Bertand Cantat sarebbe rimasto soltanto un cruento assassino - lasciate perdere la Tour Eiffel, l'Olympia, le Chat Noir e prendete un biglietto sola andata per Caen. 

Si proprio Caen, perché da qualche anno a questa parte la fredda Normandia sta partorendo una serie di gruppi che nulla hanno da invidiare alla vicina Inghilterra: tra queste spuntano i Granville, giovanissima band formatasi solamente due anni fa. 
Superato il battesimo a Le Cargö, locale di Caen che rappresenta la rampa di lancio per tutte le band locali, i Granville quest'anno faranno parlare molto di sé con il loro album d'esordio "Les Voiles". 

Come tutte le formazioni provenienti dalla loro terra, questi quattro ragazzi strizzano l'occhio verso Ovest, portando nei loro brani sonorità più vicine a Fleet Foxes e B-52, piuttosto che ai sopracitati (ma rispettabilissimi) Noir Désir. 

Un bel ritratto di famiglia, quello dei Granville, i quali prendono il loro nome da un piccolo borgo vicino alla loro hometown, mentre il loro singolo di lancio "Jersey" (una rivelazione per la rivista "Les Inrockuptibles") riempie le nostre orecchie di un' atmosfera solare e naïve che sembra più appartenere alle spiagge hawaiane degli anni 50 piuttosto che alle rive atlantiche. 

La band si è formata attorno alla figura carismatica di Melissa, cantante dal peso piuma. "E' accaduto tutto così velocemente! All'inizio la nostra sola ambizione era suonare qualche brano nella nostra sala prove scalzi, bevendo qualche bicchiere. Solamente dopo aver terminato le registrazioni del primo disco ci siamo resi contro che non erano passati nemmeno due anni dalle prime telefonate." 
Oltre all'influenza culturale de Le Cargö, la scena musicale di Caen deve molto della sua vitalità al bar "L'Écume des Nuits", che con le sue serate "open-mic diede la possibilità a Sofian e Arthur di incontrare Melissa(oggi appena maggiorenne), la quale allora lasciò il liceo per formare il primo gruppo folk "Raspberry Curls". 


Parlare d'influenze inglesi sembra essere un passaggio abbastanza logico, vista la vicinanza geografica ed il fatto che "Jersey" è anche il nome di un'isola a cavallo tra Francia ed Inghilterra, ma in questo caso i Granville sembrano non darci molta importanza: "Questo avrebbe potuto valere quindici anni fa, quando si formò una scena brit-pop, ma noi siamo più giovani e abbiamo conosciuto la musica attraverso internet. Avremmo ascoltato musica anglofona anche se fossimo nati nell'Est." 

Le sonorità della band si fondano su basi ben solide, che partono dai conterranei come Gainsbourg ed Oliver Hardy, per mescolarsi poi con formazioni oltremanica e transcontinentali della portata di Best Coast e Blood Orange. Il tutto poi va condito con il cinema di Sofia Coppola e Michel Gondry. "Ci piacciono le immagini contemplative, la musica va ascoltata per evadere. Con i Granville non si parla dei problemi quotidiani o per impegnarsi in cause sociali, anche se è fondamentale avere delle opinioni da sostenere. La nostra ambizione è suonare un pop naïf e poetico, semplice, vivace e toccante allo stesso tempo." Il loro disco, dal suono molto "live" e americano (con tutte le dovute sbavature) sostiene perfettamente questa tesi. 

L'ascolto di questo quartetto ci fa respirare un vento che sembra arrivare direttamente dalla West Coast (o la Best Coast?) su una dozzina di romantiche ballate. Un album che sogna le Hawaii (Jersey), le vacanze al mare con una "deux chevals" (Le rohmerien Adolescent), e il sole in faccia tutto l'anno (La Robe rouge). Ma guai a parlare di clichés! I Granville descrivono un mondo teenager, fragile e colorato, come un film di Wes Anderson, altro idolo fieramente rivendicato dalla band. 
M.B.


L'ascolto: "LES VOILES" (East West-Warner) - uscito il 4 Febbraio 2013

La formazione:
- Mélissa Dubourg - Voce
- Sofian El Gharrafi (songwriter, chitarre, tastiere)
- Nathan Bellanger (basso)
- Arthur Allizard (batteria)

Sito web: http://granvillegranville.com/




lunedì 11 febbraio 2013

Tutti i colori di Joel Meyerowitz


Ci sono degli incontri che cambiano il tuo punto di vista, e l'artista che ho conosciuto alla Maison Européenne de la Photographie non potrà negarlo. 
Prendete Edward Hopper, regalategli una macchina fotografica, fategli conoscere Elliott Erwitt ed otterrete Joel Meyerowitz.


Nato nel Bronx alla fine degli anni 30, Meyerowitz cominciò a condurre una vita da pubblicitario nella NY degli anni 60 quando gli capitò tra le mani un servizio fotografico ritraente due studentesse: si trattava del grande Robert Frank.
"Allora non sapevo assolutamente chi fosse, ma in un attimo mi resi conto di non ave mai visto nessuno muoversi e utilizzare una fotocamera in quel modo!" ricorda ancora adesso.

Dopo aver mollato il lavoro, a 26 anni Meyerowitz si butta nel campo della fotografia, senza mai essersene interessato prima. 
"Tutto ciò che volevo era trovarmi nelle strade di new York(...)caricai una pellicola a colori senza chiedermi se ci fosse qualche altra alternativa e uscii..." 
Questa spontaneità e innocenza gli permettono di sperimentare il colore in un' epoca dove esso non era ancora un fatto scontato. 


"Si pensava che il colore fosse troppo commerciale, o che fosse un fatto riguardante solo i dilettanti, oppure che fosse anche quasi impossibile sviluppare foto a colori da soli nella propria camera oscura."
Per le strade, davanti ai suoi occhi, il gesto o la scena di vita più banale diventano dei potenziali istanti da fissare con poesia ed ironia. 

A metà anni 60, un lungo viaggio in Europa (Parigi compresa) segnano una svolta importante nella sua carriera. Meyerowitz comincia a sperimentare portando con sé due macchine fotografiche: una a colori ed una in bianco e nero, riprendendo la stessa scena due volte, con due "occhi" diversi.  




Da allora in poi, sposerà definitivamente il colore per catturare "l'istante decisivo" con una 35 mm, che gli rivelerà tutta la bellezza del reale.
Con il passare del tempo poi lo street photographer Newyorkese estenderà il suo campo di azione ai paesaggi e alle architetture locali, come ai perfetti sconosciuti che si offrono per esser catturati dalle sue fotocamere. 


La retrospettiva della MEP presenta un intero excursus della sua carriera artistica, dal bianco e nero, alla toccante campagna fotografica sulle rovine del World Trade Center. 


"Manteniamo ricordi a colori, tanto quanto delle percezioni olfattive. Essi evocano sensazioni, e a partire dal loro riconoscimento ne elaboriamo un personale vocabolario di risposte ai colori. Chi sa veramente perché scegliamo i colori nei quali viviamo, o perché un colore ci rilassa, mentre altri ci irritano?" 

Solo una cosa è certa, con Joel Meyerowitz la "Vie en rose" ha molte più tonalità.

M.B.

sabato 2 febbraio 2013

Edward Hopper: un americano a Parigi

"Great art is the outward expression of an inner life in the artist, and this inner life will result in his personal vision of the world. No amount of skillful invention can replace the essential element of imagination. One of the weaknesses of much abstract painting is the attempt to substitute the inventions of the human intellect for a private imaginative conception."


Ad appena una settimana dal mio arrivo in terra transalpina, Parigi mi accoglie con una nevicata non indifferente, tanto da dover ricorrere all'autostop per raggiungere la metro, causa bus bloccati.
Quando a Parigi arriva la neve, i suoi cittadini si dividono in due categorie: quelli che si buttano con gli sci giù per le strade di Montmartre – ho le prove!- e quelli che passano la domenica a musei.
Dopo essermi bagnato con cura le scarpe nella Butte, decido di passare all'altro fronte.
Ritornando ai Champs-Élysées , per istinto (o per pigrizia?) mi dirigo verso il Grand Palais, attratto da una mostra dedicata ad Edward Hopper. Cosa ci fa un americano a Parigi? Decido di colmare la mia ignoranza: con un ridicolo francese chiedo un biglietto ed entro.

Nato esattamente 131 anni fa a Nyack, piccola cittadina nel sud-est dello stato di New York, da genitori borghesi, Hopper sviluppa già dall'età di 5 anni notevoli capacità artistiche.

Nel 1895 arriva il primo quadro: Rowboat in Rocky Cove, mentre Quattro anni dopo viene spinto dal padre a frequentare un corso per corrispondenza presso la New York School of Illustrating, nella speranza di tradurre le sue capacità artistiche in lavoro.

L' anno dopo Hopper s'iscrive alla NY School of Arts e ci studia sei anni sotto la fondamentale supervisione di maestri come William Merritt Chase e Robert Henry.

A parte il clima stimolante che l'artista ha occasione d'incontrare, la vera influenza sulla sua personalità artistica viene esercitata dagli insegnanti, che lo spingono a copiare le opere esposte nei musei e ad approfondirne gli autori.

In Hopper si svilupperà il gusto per una pittura ordinata, dal tratto nitido e lineare. Questa impostazione, che ad un primo esame potrebbe apparire accademica, in realtà è coniugata (nell'intento degli insegnanti e poi fatta propria da Hopper), da un rapporto critico con le regole, che spinge e invoglia il giovane artista a trovare una propria strada personale in base alla propria sensibilità.
E qui arriva Parigi: dopo il conseguimento del diploma e il primo impiego da illustratore pubblicitario alla C. Phillips & Company, Hopper nel 1906 intraprende il suo primo viaggio nella capitale Francese dove rimane fortemente colpito dalle opere di Rembrandt, quasi ignorando il fermento cubista di quegli anni. Ci ritornerà nel 1909, dipingendo a Saint-Gemain e a Fontainebleau e sarà amore per sempre con l'impressionismo: oltre a questo c'é l'influenza del Courbet paesaggista, la modernità di Degas, le coreografie galanti e l’uso del colore di Watteau, e ancora Goya e Cézanne. Gettate queste basi per un'arte realista, arrivano i primi capolavori come Summer interior (1909) e Soir Bleu (1914), tutte opere che mettono in evidenza la sua tecnica elegante e quel “senso di incredibile potenzialità dell’esperienza quotidiana” che riscuote grande successo e che segna l’inizio di una felice carriera. 





Fin dagli esordi della sua carriera artistica, Hopper è interessato alla composizione figurativa urbana e architettonica in cui inserire un unico personaggio, solo e distaccato psicologicamente, come se vivesse in una dimensione isolata. Inoltre il suo genio artistico gli ha permesso di costruire una tavolozza coloristica del tutto originale e riconoscibile. Lo studio degli impressionisti poi, e in particolare di Degas, gli infonde il gusto per la descrizione degli interni ed un uso dell'inquadratura di tipo fotografico.
L'estrema originalità di Hopper è facilmente verificabile se si pensa che il clima culturale europeo dell'epoca vedeva agitarsi sulla scena diverse tendenze certamente avanzate e rivoluzionare ma anche, talvolta, forzate da avanguardismo. ll ventaglio delle opzioni che un artista poteva abbracciare ai primi del novecento andavano dal cubismo all'astrattismo. Hopper invece, predilige rivolgere il proprio sguardo al passato appena trascorso, recuperando la lezione di importanti maestri quali Manet o Pissarro, Sisley o Courbet, riletti però in chiave metropolitana e facendo emergere, nelle sue tematiche, le contraddizioni della vita urbana.


ll ritorno in America sarà seguito da una numerosa serie di acquerelli dipinti tra il New England e il Massachussets , tra i quali spiccano House Fort Gloucester (1925) e House by the Railroad (1926),chiari esempi di un meticoloso studio dell'architettura locale. Una mostra nel 1923 lo consacrerà caposcuola dei realisti della "scena americana".


Tempo, luogo e memoria illustrano al meglio la maturità dell’artista, il suo discreto osservare e soprattutto l’abilità nel rivelare la bellezza nei soggetti più comuni, usando spesso un taglio cinematografico, molto apprezzato dalla critica.

Una luce notturna e violenta, come quella elettrica dei drugstore, dei diner, degli appartamenti semivuoti di un mondo un po’ noir, immobile e malinconica (Nighthawks-1942) ; ma anche zenitale e abbagliante, quella che scalda le facciate in legno delle case e addolcisce i volti appena abbozzati di personaggi solitari, affacciati alle finestre (Cape Cod Morning-1950). Per Hopper è sempre consistente, netta, materica; asservita alle regole della logica compositiva, diventa un potente strumento drammatico del paesaggio americano rappresentato, evocazione di una struggente solitudine, spaziale e umana. Una sensibilità che solo l'Europa poteva donargli.


Hopper è stato per lungo tempo associato a suggestive immagini di edifici urbani e alle persone che vi abitavano, ma più che i grattacieli egli preferiva le fatiscenti facciate di negozi anonimi e i ponti meno conosciuti (From Williamsburg Bridge - 1928).



Tra i suoi soggetti favoriti vi sono scorci di vita nei tranquilli appartamenti, spesso intravisti dietro le finestre, come testimoniano alcuni celebri capolavori esposti: Cape Cod Sunset (1934), Second Story Sunlight (1960) e A Woman in the Sun (1961).



E tutto questo estremo realismo conduce sempre all' irreparabile solitudine umana, ossessione che Hopper si porterà fino alla morte, avvenuta nel 1967.

L'ultimo quadro esposto, Sun in an empty room (1963), è l'emblema di tutto questo: nel suo disorientante vuoto, svuotato di umanità e riempito solo dalla luce del sole, la rappresentazione del maestro ha raggiunto il suo estremo messaggio. La presenza ora convive con l'assenza.  




Esco da Gran Palais e continua a nevicare. Non mi sarei mai immaginato di andare negli States senza muovermi dalla Francia.
M.B.